Alla fine la colpa era solo sua.
La distanza di quell’amore estivo
non c’entrava.
Nessuno da incolpare se non se
stesso.
È che l’aveva abituata troppo
bene con tutti quegli sms che dal buongiorno del mattino la accompagnavano fino
alla buonanotte della sera, al punto che lei aveva ormai rinunciato
all’orologio e regolava le sua giornata in funzione della segnalazione acustica
del messaggino delle 8.00, di quello delle 8.30, del successivo delle 9.00 e
così via fino a quello che le augurava sogni d’oro a mezzanotte in punto.
Chilometri di strade asfaltate e autostrade
telematiche colmate da rapide comunicazioni in 140 caratteri.
Solo al rintoccare delle 24
poteva finalmente svestire i panni di Cupido digitale e tornare a indossare
quelli di normale adolescente cullato fra le braccia di Orfeo.
Ma anche Orfeo sapeva essere dispettoso: la nottata trascorreva
all’insegna di irrequiete elucubrazioni sul primo saluto via etere da inviare
una volta sveglio, prima ancora di accendere la luce e stropicciarsi gli occhi.
Vai a spiegare alla mamma, occhieggiante in piena notte dall’uscio
della cameretta la sagoma agitata del figlio contorcersi tra le lenzuola, che
non si trattava di compulsivi atti onanistici inficianti le diottrie del futuro
dottore in legge, ma semplici digitazioni oniriche su ipotetiche tastiere
metafisiche.
Un ripetitivo corteggiamento quotidiano che rassicurava lei
e allo stesso tempo faceva sentire importante lui.
Almeno fino all’avvento della crisi, quando, all’improvviso,
la mancia settimanale della mamma non bastava più a sostenere l’incalzante
ritmo delle ricariche e anche le banconote sfilate dalla giacca di papà si
facevano via via di un colore più smunto e più povero, meno arancione e più
verdognolo.
Lui non lo sapeva allora, ma i munifici bigliettoni di un
tempo venivano ora sacrificati dai genitori in nome di quel futuro da dottore
in legge sempre auspicato e all’improvviso bisognevole di imprevisti quanto
prematuri accantonamenti.
La vergogna della progressiva insostenibilità dell’amorevole
tran tran messaggistico ebbe la meglio sulla timida risoluzione di raccontarle
la semplice verità.
Nessuna trascuratezza sentimentale, nessuna aritmia del
cuore, nessuna noia da routine relazionale.
Solo la crisi che, con le sue piccole ricadute, scendeva dall’alto
scranno macroeconomico dei telegiornali e dei discorsi dei grandi per scendere
inaspettatamente all’altezza emotiva delle persone, adolescenti compresi.
Nient’altro quindi che l’avversa congiuntura ma non per lei:
inizialmente incurante di qualche scherzo della telefonia mobile o di perdonabili
dimenticanze del suo amore distratto, poi spaventata da un’amnesia sempre meno
casuale, infine decisa a porre fine a un rapporto che la stava facendo soffrire
troppo nella snervante attesa di uno schermo che non decideva a illuminarsi.
Quel giorno fu lei a sovvertire l’ordine consueto delle cose
e a mandare a lui il primo messaggio del mattino.
Lapidario, stringato, asciutto, come un portafoglio in tempi
di spending review: «Buongiorno. Addio».
Lui pensò subito di chiamarla ma il credito non bastava
neppure per rivolgerle uno squillo supplichevole di spiegazioni.
Si ricordò allora della carta da lettere regalatagli anni
prima dallo zio e relegata da allora in un angolo accuratamente snobbato della
scrivania.
Si sedette ancora intorpidito allo scrittoio, inforcò la
penna e distese il foglio.
Fece per redigere in bella calligrafia la prima riga ma si
fermò al Cara…
Non
sapeva più come proseguire e poi era gratis.