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sabato 23 febbraio 2013

L'amore ai tempi della crisi


Alla fine la colpa era solo sua.

La distanza di quell’amore estivo non c’entrava.

Nessuno da incolpare se non se stesso.

È che l’aveva abituata troppo bene con tutti quegli sms che dal buongiorno del mattino la accompagnavano fino alla buonanotte della sera, al punto che lei aveva ormai rinunciato all’orologio e regolava le sua giornata in funzione della segnalazione acustica del messaggino delle 8.00, di quello delle 8.30, del successivo delle 9.00 e così via fino a quello che le augurava sogni d’oro a mezzanotte in punto.

Chilometri di strade asfaltate e autostrade telematiche colmate da rapide comunicazioni in 140 caratteri. 

Solo al rintoccare delle 24 poteva finalmente svestire i panni di Cupido digitale e tornare a indossare quelli di normale adolescente cullato fra le braccia di Orfeo.   

Ma anche Orfeo sapeva essere dispettoso: la nottata trascorreva all’insegna di irrequiete elucubrazioni sul primo saluto via etere da inviare una volta sveglio, prima ancora di accendere la luce e stropicciarsi gli occhi.

Vai a spiegare alla mamma, occhieggiante in piena notte dall’uscio della cameretta la sagoma agitata del figlio contorcersi tra le lenzuola, che non si trattava di compulsivi atti onanistici inficianti le diottrie del futuro dottore in legge, ma semplici digitazioni oniriche su ipotetiche tastiere metafisiche.

Un ripetitivo corteggiamento quotidiano che rassicurava lei e allo stesso tempo faceva sentire importante lui.

Almeno fino all’avvento della crisi, quando, all’improvviso, la mancia settimanale della mamma non bastava più a sostenere l’incalzante ritmo delle ricariche e anche le banconote sfilate dalla giacca di papà si facevano via via di un colore più smunto e più povero, meno arancione e più verdognolo.

Lui non lo sapeva allora, ma i munifici bigliettoni di un tempo venivano ora sacrificati dai genitori in nome di quel futuro da dottore in legge sempre auspicato e all’improvviso bisognevole di imprevisti quanto prematuri accantonamenti.

La vergogna della progressiva insostenibilità dell’amorevole tran tran messaggistico ebbe la meglio sulla timida risoluzione di raccontarle la semplice verità.

Nessuna trascuratezza sentimentale, nessuna aritmia del cuore, nessuna noia da routine relazionale.

Solo la crisi che, con le sue piccole ricadute, scendeva dall’alto scranno macroeconomico dei telegiornali e dei discorsi dei grandi per scendere inaspettatamente all’altezza emotiva delle persone, adolescenti compresi.

Nient’altro quindi che l’avversa congiuntura ma non per lei: inizialmente incurante di qualche scherzo della telefonia mobile o di perdonabili dimenticanze del suo amore distratto, poi spaventata da un’amnesia sempre meno casuale, infine decisa a porre fine a un rapporto che la stava facendo soffrire troppo nella snervante attesa di uno schermo che non decideva a illuminarsi.

Quel giorno fu lei a sovvertire l’ordine consueto delle cose e a mandare a lui il primo messaggio del mattino.

Lapidario, stringato, asciutto, come un portafoglio in tempi di spending review: «Buongiorno. Addio».

Lui pensò subito di chiamarla ma il credito non bastava neppure per rivolgerle uno squillo supplichevole di spiegazioni.

Si ricordò allora della carta da lettere regalatagli anni prima dallo zio e relegata da allora in un angolo accuratamente snobbato della scrivania.

Si sedette ancora intorpidito allo scrittoio, inforcò la penna e distese il foglio.

Fece per redigere in bella calligrafia la prima riga ma si fermò al Cara…
Non sapeva più come proseguire e poi era gratis.

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