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sabato 27 febbraio 2016

Ho deciso

È che non mi viene naturale.
Fa presto Irene a dirmi: "Gioca un po' col bimbo, dai! È lì che non vede l'ora!".
A parte che dopo due mesi di vita credo che il pargolo mi abbia ormai identificato con la metà pacata e impacciata della genitorialità e se ne sia fatto una ragione.
A parte ciò, non c'è nessun blocco freudiano da parte mia.
È semplicemente troppo piccolo perché possa interagire: non parla, non calcia, non lancia, non corre, non salta, non mischia le carte.
Come si fa a giocare con una creatura che tutt'al più sgrana gli occhi, rutta, scoreggia, gesticola a casaccio e si capotta?
Altro discorso quando rientro da un lungo aperitivo solitario e lo strappo dalla carrozzina, lo lancio sul tappettino dei giochi, scosto Irene che cerca di fermarmi e lo sovrastimolo fino allo sfinimento: giochi di parole, braccio di ferro, indovinelli, ginnastichina al ritmo dei Nirvana, shangai, stornelli in romanesco e tutto quello dettatomi dall'euforia del momento.
La birra doppio malto come propellente all'interazione tra padre e figlio?
Mi sono allora immaginato un futuro di gare di corsa a chi arriva per primo in casa in cui inciampo e sbiascico scuse inverosimili, di partite di calcio in cui lo centro col pallone e scoppio a ridergli in faccia, di spinte sull'altalena in cui mi distraggo e mi ritrovo svenuto per terra, di contese a Scarabeo in cui gli rubo di nascosto le lettere e lo spintono se mi accusa di aver barato, di sfide a Monopoli in cui sbocco su Parco della Vittoria.
Allora in via preventiva ho deciso di smettere.
Di giocare con mio figlio.

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