Sarà stato il senso di colpa, sarà stato un improvviso
rigurgito di senso paterno, sarà stata la fulminea consapevolezza di dover
recuperare il rapporto con quel figlio tredicenne che da un po’ di tempo aveva
cominciato ad apparirgli sempre più distante, lontano anni luce dalla complicità
che li aveva resi inseparabili fino a qualche mese prima. Quella stessa
complicità che tanto dolore, per quanto celato agli occhi altrui, aveva causato
alla moglie nonché madre, invidiosa giorno dopo giorno di un legame
padre-figlio intriso di goliardia cameratesca nutrita all’inizio di giochi
virili e imbevuta poi di discorsi politici.
Le giustificazioni per una simile deriva sentimentale? Nessuna
mancanza genitoriale, semplicemente le solite scuse che un padre si dà per autoassolversi:
il lavoro e gli straordinari obbligatori, l’ingresso negli -anta e la stanchezza cronica, la
delusione ideologica (sua) e la passione contestataria (del figlio), l’indole sovversiva
e anaffettiva tipica di ogni adolescente (in fondo c’era passato anche lui anni
prima).
Fatto sta che quel giorno aveva deciso che un tentativo di
riavvicinamento andava compiuto e per questo aveva dato il permesso al figlio
di andare al raduno di estrema destra cui da tempo il ragazzo voleva partecipare ma che fino ad allora aveva conosciuto solo la strenua opposizione della
madre, timorosa che il figlio ricascasse nei medesimi errori giovanili del
marito (di fare visita in carcere ogni domenica mattina a un altro maschio di
casa non aveva proprio voglia).
Unica condizione imposta dalla madre: quella che il ragazzo non ci andasse da solo.
Padre e figlio arrivarono nella spianata del raduno mentre
già in lontananza si scorgeva un assembramento di persone intenta ad animare
con gesti ripetuti quello che altrimenti sarebbe parso un contesto
innaturale e spento per un raduno politico.
Il declivio grigio e ghiaioso del lago di Bolsena poco
infatti si sposava con la pubblicistica clandestina di un evento da cui “sarebbe sortita la riscossa dell’italica
patria”. Forse proprio la segretezza dell’incontro, più volte impedito dalle
autorità della Capitale, aveva spinto gli organizzatori a scegliere tale amorfa
ambientazione, resa ancor più lugubre dalle sagome rachitiche degli alberi
autunnali e dal ritmo ipnotico della risacca.
C’era però quella fervida animosità di teste rasate a
ravvivare l’atmosfera e a rendere il tutto quantomeno curioso anche per il più
disinteressato dei passanti; figuriamoci per un padre e un figlio che ritrovarono
nell’occasione l'aggancio ideologico per riallacciare le confidenze interrotte
tempo addietro.
La sorda pesantezza che aveva permeato il viaggio in
macchina si scioglieva ora in un’entusiastica gara a sfidare la memoria dell’altro
con una serie di «E tu ti ricordi quando facevamo arrabbiare la mamma nascondendole
il busto del Duce sotto le coperte?» e giù risate e pacche sulle spalle.
Ad ogni passo, vieppiù affrettato per raggiungere i camerati,
l’imbarazzo precedente si dissolveva e un rinnovato affiatamento saldava una
relazione che si era forse solo assopita sotto la cenere dei non detti per poi rinfocolarsi alla prima folata di vento, o almeno questa era l’impressione
del padre.
Ad ogni passo appariva però sempre più chiaro che quella che
alla distanza sembrava una selva di braccia meccanicamente tese, corrispondeva
in realtà a uno scoordinato sbraccio collettivo di persone che lanciavano l’una
addosso all’altra sassi e pietre raccolte con gesto rabbioso dal
terreno ai loro piedi. Quasi si trattasse di un regolamento di conti atteso da
anni che, una volta esploso, era impossibile fermare.
Fu allora che il padre raggiunse il figlio dopo che questi
aveva all’improvviso accelerato l’andatura per guadagnare il centro dell’insolita
adunata.
Lo strattonò con fare deciso, come solo un padre nell’atto
di salvare il proprio figlio sa fare, e si voltò per mostrare al ragazzo la
palese assurdità della scena circostante.
Ma fu solo quando si rigirò per dirgli «Andiamocene» che vide il figlio tendere il
braccio e prendere la mira contro di lui.