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sabato 18 gennaio 2014

Adunata




Sarà stato il senso di colpa, sarà stato un improvviso rigurgito di senso paterno, sarà stata la fulminea consapevolezza di dover recuperare il rapporto con quel figlio tredicenne che da un po’ di tempo aveva cominciato ad apparirgli sempre più distante, lontano anni luce dalla complicità che li aveva resi inseparabili fino a qualche mese prima. Quella stessa complicità che tanto dolore, per quanto celato agli occhi altrui, aveva causato alla moglie nonché madre, invidiosa giorno dopo giorno di un legame padre-figlio intriso di goliardia cameratesca nutrita all’inizio di giochi virili e imbevuta poi di discorsi politici.  
Le giustificazioni per una simile deriva sentimentale? Nessuna mancanza genitoriale, semplicemente le solite scuse che un padre si dà per autoassolversi: il lavoro e gli straordinari obbligatori, l’ingresso negli -anta e la stanchezza cronica, la delusione ideologica (sua) e la passione contestataria (del figlio), l’indole sovversiva e anaffettiva tipica di ogni adolescente (in fondo c’era passato anche lui anni prima).
Fatto sta che quel giorno aveva deciso che un tentativo di riavvicinamento andava compiuto e per questo aveva dato il permesso al figlio di andare al raduno di estrema destra cui da tempo il ragazzo voleva partecipare ma che fino ad allora aveva conosciuto solo la strenua opposizione della madre, timorosa che il figlio ricascasse nei medesimi errori giovanili del marito (di fare visita in carcere ogni domenica mattina a un altro maschio di casa non aveva proprio voglia).
Unica condizione imposta dalla madre: quella che il ragazzo non ci andasse da solo.
Padre e figlio arrivarono nella spianata del raduno mentre già in lontananza si scorgeva un assembramento di persone intenta ad animare con gesti ripetuti quello che altrimenti sarebbe parso un contesto innaturale e spento per un raduno politico.
Il declivio grigio e ghiaioso del lago di Bolsena poco infatti si sposava con la pubblicistica clandestina di un evento da cui “sarebbe sortita la riscossa dell’italica patria”. Forse proprio la segretezza dell’incontro, più volte impedito dalle autorità della Capitale, aveva spinto gli organizzatori a scegliere tale amorfa ambientazione, resa ancor più lugubre dalle sagome rachitiche degli alberi autunnali e dal ritmo ipnotico della risacca.
C’era però quella fervida animosità di teste rasate a ravvivare l’atmosfera e a rendere il tutto quantomeno curioso anche per il più disinteressato dei passanti; figuriamoci per un padre e un figlio che ritrovarono nell’occasione l'aggancio ideologico per riallacciare le confidenze interrotte tempo addietro.
La sorda pesantezza che aveva permeato il viaggio in macchina si scioglieva ora in un’entusiastica gara a sfidare la memoria dell’altro con una serie di «E tu ti ricordi quando facevamo arrabbiare la mamma nascondendole il busto del Duce sotto le coperte?» e giù risate e pacche sulle spalle.
Ad ogni passo, vieppiù affrettato per raggiungere i camerati, l’imbarazzo precedente si dissolveva e un rinnovato affiatamento saldava una relazione che si era forse solo assopita sotto la cenere dei non detti per poi rinfocolarsi alla prima folata di vento, o almeno questa era l’impressione del padre.
Ad ogni passo appariva però sempre più chiaro che quella che alla distanza sembrava una selva di braccia meccanicamente tese, corrispondeva in realtà a uno scoordinato sbraccio collettivo di persone che lanciavano l’una addosso all’altra sassi e pietre raccolte con gesto rabbioso dal terreno ai loro piedi. Quasi si trattasse di un regolamento di conti atteso da anni che, una volta esploso, era impossibile fermare.
Fu allora che il padre raggiunse il figlio dopo che questi aveva all’improvviso accelerato l’andatura per guadagnare il centro dell’insolita adunata.
Lo strattonò con fare deciso, come solo un padre nell’atto di salvare il proprio figlio sa fare, e si voltò per mostrare al ragazzo la palese assurdità della scena circostante.
Ma fu solo quando si rigirò per dirgli «Andiamocene» che vide il figlio tendere il braccio e prendere la mira contro di lui.  

venerdì 3 gennaio 2014

Labirintite sentimentale



L’unica sensazione simile l’aveva avvertita quella volta che, solleticato dalle circostanze (invitante posto libero a fianco di colei che sarebbe diventata poi sua moglie), si era seduto sul tram in direzione opposta rispetto a quella di marcia: improvviso senso di nausea, vertiginoso calo di pressione e disperato bisogno di sdraiarsi prima che il vomito prendesse il sopravvento.
Da sempre, sin da bambino, era conscio di questa sua debolezza fisica; da quella volta che, giratosi per giocare coi soldatini sul copri-baule mentre papà e mamma guidavano spensieratamente, aveva avvertito un’inaspettata esplosione gastrica e, prima che riuscisse a pronunciare una qualsiasi “mam…” di stupore, aveva assistito coi suoi stessi occhi all’esondazione spontanea dalla bocca di un fiotto di cioccolata misto plasmon a ricoprire il sedile, il lunotto posteriore e i poveri soldatini.   
Anche ora che si era appena trasferito nel nuovo appartamento presentiva quella stessa fastidiosa sensazione che per tutta la vita aveva cercato accuratamente di evitare.
Eppure non si trovava in movimento; al contrario, era coi piedi ben piantato a terra.
Eppure non si era mai sentito d’animo così leggero da quando aveva abbandonato il vecchio alloggio di famiglia in cui ancora risuonava l’eco delle porte sbattute e del freddo addio di lei poco prima dello scoccare del nuovo anno.
Eppure in quell’esatto momento stava assaporando una delle sensazioni più rilassanti che organismo umano possa conoscere: la defecatio post-prandiale che solo gli autentici intenditori dell’abbinata caffè e sigaretta possono capire.
Per la prima volta da quando aveva cambiato abitazione e portato a termine il trasloco (poca roba, a dire il vero: un logoro tappetino da bagno tutto fronzoli che aveva comperato con lei ai mercatini natalizi di Bolzano giusto qualche giorno prima della rottura), si stava permettendo una fugace visita nel Nirvana dello sgombro intestinale in attesa di ripiombare di lì a poco nelle secolari leggi  del metabolismo quotidiano.
Qualcosa però non andava: all’improvviso lo stesso senso di nausea, il medesimo calo di pressione e l’identico bisogno di sdraiarsi di quella volta sul tram.
Un attimo prima che il conato avesse la meglio l’illuminazione: il water della casa nuova era collocato esattamente dalla parte opposta rispetto al water che aveva accolto le sue natiche nella precedente fase della sua esistenza.
Di quella dimora aveva curato insieme all’architetto ogni minimo dettaglio, ma aveva trascurato l’innocuo particolare di quale punto cardinale assegnare alla tazza sanitaria.
Tempo di aver chiare le idee e si voltò inginocchiandosi come un provetto saltimbanco per restituire al mondo la colazione di qualche ora addietro, e poi la cena delle sera prima e l’aperitivo delle sette con gli amici e il caffè preso alla macchinetta dell’ufficio nel primo pomeriggio e così via in un interminabile flashback duodenale fino alla squallida cotoletta fredda addentata di malavoglia la sera di Capodanno.
Nello stesso momento in cui rigurgitava l’inverosimile avvertiva però progressivamente, rigetto dopo rigetto, una rinnovata quiete intestinale frutto della riguadagnata giusta direzione.
Tempo di espellere l’ultimo rimasuglio di bistecca impanata e la rilassatezza di stomaco si era immediatamente trasferita qualche centimetro di intestino sotto, talmente pervasiva da comportare la spontanea evacuazione dello sfintere a brache ancora abbassate. 
Niente da fare: ormai il tappetino era da buttare.