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sabato 27 febbraio 2016

Ho deciso

È che non mi viene naturale.
Fa presto Irene a dirmi: "Gioca un po' col bimbo, dai! È lì che non vede l'ora!".
A parte che dopo due mesi di vita credo che il pargolo mi abbia ormai identificato con la metà pacata e impacciata della genitorialità e se ne sia fatto una ragione.
A parte ciò, non c'è nessun blocco freudiano da parte mia.
È semplicemente troppo piccolo perché possa interagire: non parla, non calcia, non lancia, non corre, non salta, non mischia le carte.
Come si fa a giocare con una creatura che tutt'al più sgrana gli occhi, rutta, scoreggia, gesticola a casaccio e si capotta?
Altro discorso quando rientro da un lungo aperitivo solitario e lo strappo dalla carrozzina, lo lancio sul tappettino dei giochi, scosto Irene che cerca di fermarmi e lo sovrastimolo fino allo sfinimento: giochi di parole, braccio di ferro, indovinelli, ginnastichina al ritmo dei Nirvana, shangai, stornelli in romanesco e tutto quello dettatomi dall'euforia del momento.
La birra doppio malto come propellente all'interazione tra padre e figlio?
Mi sono allora immaginato un futuro di gare di corsa a chi arriva per primo in casa in cui inciampo e sbiascico scuse inverosimili, di partite di calcio in cui lo centro col pallone e scoppio a ridergli in faccia, di spinte sull'altalena in cui mi distraggo e mi ritrovo svenuto per terra, di contese a Scarabeo in cui gli rubo di nascosto le lettere e lo spintono se mi accusa di aver barato, di sfide a Monopoli in cui sbocco su Parco della Vittoria.
Allora in via preventiva ho deciso di smettere.
Di giocare con mio figlio.

domenica 21 febbraio 2016

Lui piangerà perché

A seguire il mio personale contributo alla pediatria moderna.
Il bebè piange perché:
- ha carpito la frase rivolta al papà "Adesso prendilo un po' in braccio tu senza farlo più cadere";
- ha sonno (il che non significa che poi dorma, ha semplicemente sonno e vuole che si sappia);
- ha visto una tribuna politica dal primo all'ultimo minuto, occhi sbarrati davanti alla tele, complici mamma e papà addormentatisi ai due lati del divano;
- ha fatto un brutto sogno nel cuore della notte e si è svegliato singhiozzando (almeno così mi racconta la mattina dopo Irene: e chi se n'era accorto?);
- ha fame (il bebè);
- ha fame (la mamma, e il bebè sa che verrà snobbato per almeno tre quarti d'ora abbondanti, ammesso non ci siano anche secondo, frutta, limoncello e dolce);
- ha ricevuto una spallata dal papà nella gara per accaparrarsi il capezzolo della mamma;
- ha problemi di aria nello stomaco, riflusso, coliche (non in alternativa l'uno all'altro, tutti e tre assieme naturalmente);
- ha il pannolino pieno di pupì (perché si tratta di un pastrugno delle due cose, una specie di blob pulsante e maleodorante) e reclama il cambio della mamma (non nel senso in cui lo reclama il papà);
- ha sentito la parola "garage" che ormai associa a quella volta che il papà ha tirato giù in fretta la saracinesca col dubbio di aver dimenticato qualcosa, o meglio qualcuno, dentro;
- ha bisogno di attenzioni ma il papà lo ignora perché deve scrivere al computer che suo figlio ha bisogno di attenzioni.

venerdì 12 febbraio 2016

Sillogismo lacrimevole

Mio figlio non piange mai.
Almeno non in mia presenza.
Il pianto esiste fintanto che lo senti.
Se non lo senti, il pianto non esiste.
Se Irene è fuori casa e io rimango solo col bambino e capisco che il bambino sta per piangere, lo abbandono nella carrozzina e mi fiondo al bar a bere una birra.
Se al bar mi chiedono: "Ma tuo figlio piange?", io rispondo: "No, almeno non in mia presenza".
Se Irene mi chiama per dirmi che sta tornando, mollo la birra a metà e mi precipito in casa, dove il bambino sta fragorosamente piangendo chissà da quanto.
Quando Irene entra in casa e mi chiede: "È da tanto che piange?", io rispondo: "Praticamente da quando sei arrivata tu".
Lei ci rimane così male da mettersi a piangere.
Ma a quel punto io sono già altrove (a finire la birra).

venerdì 5 febbraio 2016

Piccole ghiandole crescono

L'altro giorno, in assenza temporanea di Irene (letto, bagno o sigaretta di nascosto), mi sono ritrovato seduto sul divano col pupo in braccio che a un certo punto cercava a occhi chiusi di attaccarsi a non so quale capezzolo come solo un cucciolo guidato dall'istinto farebbe.
All'inizio la cosa mi divertiva, poi ha preso piano piano sopravvento il mio lato femminile (fino a quel giorno saltuariamente emerso in occasione delle comparsate televisive di Gabriel Garko) e ho cominciato a desiderare le tette (in modo diverso, però, da come le avevo sempre desiderate sin dall'adolescenza).
Ora, in assenza temporanea di Irene, mi precipito pupo in mano al frigo ed estraggo il biberon d'emergenza in cui Irene ha precauzionalmente travasato un po' del suo latte, mi risiedo con calma sul divano e sollevo leggermente la maglia fino ad altezza addominali.
Quindi infilo il biberon sotto ascella e fingo di allattare la creatura come una mamma qualsiasi.
Il tutto accompagnato da una voce castrata (la mia) che sottolinea ogni fase dell'operazione, del tipo: "Bene, adesso Federico approfitta del seno del papà e ci dà dentro. Vero Federico?".
Ultimamente ho quasi l'impressione che le ghiandole mammarie mi si siano leggermente ingrossate.
Potere dell'autosuggestione, non lo so.
Domani faccio un salto al Tigotà e compro due coppette contieni-latte, non si sa mai.