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domenica 28 dicembre 2014

Campagna per la sensibilizzazione contro l'abbandono degli ombrelli

Ogni anno, con l'approssimarsi dell'estate, arriva l'immancabile campagna contro l'abbandono dei cani.
Sacrosanta, più che legittima.
Ogni anno, con l'approssimarsi dell'autunno, scatta l'indifferenza generale a proposito di un'altra piaga della nostra società: l'abbandono degli ombrelli.
Se 60 milioni di Italiani ne avessero uno, il settore manifatturiero in questione sarebbe il più fiorente e trainante dell'economia nazionale.
A circolarne, probabilmente, non saranno più di un migliaio; forse qualche centinaia.
Pochi stanno in casa; la maggior parte attendono un nuovo padrone fuori dai bar, incastrati fra i sedili del vagone della metro, negli androni dei palazzi in cui si è stati ospiti per una sera.
Passano di mano in mano non per tacito accordo da loggia massonica ma per la superficialità e la sbadataggine con cui trattiamo un oggetto che ci è utile fintanto che piove.
Poi, al diradarsi delle nubi, l'indifferenza ("Ma stamattina ero uscito con...?", "Eppure mi sembrava di aver preso...", "Ho come la sensazione di..."). 
Un giorno, ormai adulti, fuori da un negozio, nell'attimo esatto in cui afferrerete il primo ombrello a disposizione per evitare di infradiciarvi fino alla macchina, vi ritroverete in mano l'ombrellino con Minny e Topolino che da bambini vi copriva la testa mentre, mano nella mano del vostro papà, saltellavate nelle pozzanghere verso scuola. Poi, un pomeriggio, usciti di corsa dopo l'ultima campanella, la dimenticanza e la sparizione. E a casa giù lacrime.
Anche vent'anni dopo, a passo affrettato verso la macchina, avvertirete la sensazione di una lacrima sul viso.
In realtà sarà quella dell'ombrello, felice ed emozionato come il cane Argo al ritorno di Ulisse.
Il prossimo autunno non scordate in giro l'ombrello; altrimenti, i veri bastardi, sarete voi!

domenica 21 dicembre 2014

A volte permangono

Hai vinto tu.
Credevo te ne fossi andata, al punto che avevo smesso di cercarti.
E invece, una notte del 21 novembre 2014, torni da me; a non poche settimane dal nostro ultimo incontro.
E lo fai al solito modo: svolazzandomi di punto in bianco sopra la testa quasi a voler sbeffeggiare ad alta voce me e Madre Natura che da tempo ti vorrebbe morta (e io con Lei).
E allora cambio strategia: "Alleati di ciò che non puoi distruggere". E così farò.
Lascerò scoperto ogni notte un sussurro di carne, lì dove finisce il pigiama e comincia la chiappa sinistra. Ti nutrirò, ti vizierò, ti coccolerò.
E tu mi ronzerai attorno al mio rientro a casa, andrai a prendermi il giornale, mi riporterai indietro le cellule morte che ti lancerò come fa un cane con l'osso.
Sarai la mia personale zanzara domestica.
Hai vinto tu.

sabato 13 dicembre 2014

All'improvviso una conosciuta

Avete presente quando uscite dalla doccia coi capelli gocciolanti e gli occhi socchiusi causa effetto-schiuma e allungate le mani a tentoni per afferrare il salviettone che è lì da qualche parte (e siete sicuri che c'è; una delle poche certezze della vita) e, una volta trovato, cominciate a sfregarvi la testa con voluttà come vi faceva la mamma quando eravate bambini che all'inizio vi opponevate ma poi tutt'e due scoppiavate a ridere insieme e allora adesso sfregate con frenesia nell'oscurità e in apnea quasi a voler ricreare il candore di quei momenti e solo a un certo punto riaprite gli occhi e tornate alla brusca realtà ma è stato bello lo stesso per un attimo fingersi l'innocente creatura di allora visto che è da mo' che avete perso quella spensieratezza? Avete presente?
Ecco, accertatevi prima che non ci sia una cimice sopra.

domenica 7 dicembre 2014

Per chi suona la campana

Un giorno ti inviterò a far serata insieme e ti porterò nei posti dove c'è del buon vino.
Anche se in linea d'aria siamo distanti non più di una cinquantina di metri, sarà la prima occasione per fare un sunto delle nostre vite fino ad allora l'uno all'altro sconosciute.
E andremo avanti a conoscerci aspettando l'alba di un giorno nuovo.
Quindi ti riporterò a casa e, poco dopo averti salutato sull'uscio col sorriso reciproco di un'amicizia in divenire, risalirò sulla macchina per fare altrettanto.
Ma in realtà non andrò a letto ma me ne starò seduto lì, in attesa che la luce della tua stanza si spenga e tu ti sia addormentato sfinito dalla lunga serata.
Solo allora scenderò dall'auto e comincerò a suonare ripetutamente il campanello al ritmo melenso di Fra' Martino.
E quando tu risponderai ancora assonnato e parecchio infastidito, io ti augurerò: "Buona domenica del cazzo, caro il mio campanaro!".

sabato 29 novembre 2014

Questione di saluti

Che poi non sai mai come salutarli e rischi gaffe colossali che rischiano di deflagrare in una faida fra clan rivali destinata a perpetuarsi di generazione in generazione.
Sono quegli individui appartenenti alla categoria "lo conosco di vista, forse c'ho anche parlato insieme un volta, ma non so mai come cazzo comportarmi quando lo incrocio per strada o in qualsiasi altro posto implicante un minimo cenno di riconoscimento".
È infatti in occasioni del genere (per le vie del paese, tra le corsie del supermarket, in fila al cinema o alla posta) che, nel giro di una frazione di secondo, dovete decidere quale atteggiamento assumere: da un lato il timore di passare per maleducati e dall'altro l'imbarazzo frutto della mancata confidenza, specialmente in contesti alieni dove una faccia nota fa davvero la differenza (fa eccezione l'incontro casuale in vacanza allorché si è tutti compagnoni anche se al borgo natio non ci si è mai cagati di striscio).
Scartato quindi il saluto plateale che si riserva naturalmente a parenti e amici, rimangono le seguenti opzioni:
- muto sorriso di cortesia con gli occhi ben attenti a non fissare troppo a lungo lo sguardo di chi potrebbe allo stesso tempo interpretare il vostro ghigno come ebetismo incipiente, piacere autoindotto o cannabinoide agente;
- celere cenno della mano rapidamente commutabile, in caso di mancato riscontro, in raptus articolare declinante in tic nervoso (il che vi obbliga a ripeterlo a cadenza regolare almeno per un altro paio di metri);
- osare l'inosabile gorgogliando il nome altrui nella speranza sia quello giusto, da cui un bofonchiante "Ciao ...rlo", "Ciao ...ita", "Ciao ...igi", "Ciao ...nzo" (il più ambiguo) fino allo sgamevole "Ciaoooooooo" con quella "o" prolungata all'infinito in attesa giunga un'illuminazione dall'Alto (che non arriverà mai).

mercoledì 12 novembre 2014

Della molestitudine del vicinato

Reduce da una gratuita osservazione condominiale sul fatto che oggi abbiamo bissato a pranzo lo stesso piatto di domenica scorsa (per la serie: e quindi? Niente di meglio che snasare gli odori delle case altrui?), a seguire 6 situazioni avvaloranti il legittimo sospetto che il vicino non si faccia sufficientemente li cazzi propri:
- ai passanti che già fanno per andarsene dopo aver scampanellato a vuoto, giunge all'ultimo dall'oltrecitofono una metallica voce sconosciuta: "L'ho appena sentito tirare lo sciacquone. Tempo del bidè e apre";
- lo spioncino che dà sul pianerottolo s'illumina a ogni girata di maniglia (anche la più vellutata), accostamento di porta (anche il più accompagnato), cigolio di cardine (anche il più insonorizzato). Se sbagliate a uscire e rientrare più volte consecutive, ne deriva un incredibile effetto di stroboscopico lumicino intermittente;
- in occasione del parcheggio di fine giornata, la concentrazione sull'imminente manovra a S è interrotta da un non richiesto nonché urlato dal balcone: "Adesso sterza tutto. Ancora. Ancora. Ok, stop";
- quando fate per aprire la cassetta della posta, vi passa a fianco e dice con nonchalance: "È inutile. Oggi niente";
- al momento del recupero del secchiello dell'umido, lo stesso portato in strada la sera prima debitamente sigillato, vi sentite dire: "Ho notato che questa settimana avete consumato meno carne";
- la mattina dopo aver fatto all'amore, uscite di casa e lo trovate appoggiato allo stipite della porta con un sorrisetto del genere "Eeeh...". Eeeh cosa? Cosa?

martedì 21 ottobre 2014

Veglia perpetua

La scorsa notte mi ha portato consiglio: ho deciso che metterò al mondo un figlio.
Non per un animalesco istinto di perpetuare la specie o perché nel silenzio ovattato della stanza avverta ormai l'inesorabile ticchettio dell'orologio biologico che avanza.
Ho deciso che metterò al mondo un figlio per rappresaglia.
Un giorno, quando avrà compiuto 16 anni, lo convocherò nel mio studiolo e gli dirò: "Lo so che abbiamo parlato poco e tra noi sono stati più i silenzi che le confidenze. Ma ora ho bisogno che tu faccia qualcosa per me. Smettila di rintanarti tutto il giorno nella cameretta a guardare ologrammi-porno e impugna invece questa lista. È gente che non conosci se non per sentito dire. Avranno bene o male tutti una quindicina d'anni più di te. Ecco, qui trovi nome, cognome e attuale indirizzo. C'ho messo un po' a rintracciarli tutti ma ce l'ho fatta. Non dovrai fare altro che appostarti a turno sotto la loro abitazione ogni sabato sera per un anno intero così come loro facevano con me e tua madre una quindicina d'anni fa. Una volta raggiunti, aspetterai silenzioso in macchina che anche l'ultima luce della loro dimora si sia spenta. Dopodiché, concessi venti minuti perché prendano sonno, alzerai il volume della unz-music a manetta (non ci crederai, ma questo genere assurdo esisteva già all'epoca). Quindi tirerai fuori all'improvviso dal bagagliaio un pallone che un attimo dopo scaglierai alla viva il parroco per le strade deserte, quando il silenzio delle tenebre fa di ogni rimbalzo un tuffo al cuore. Infine, tempo di riprendere fiato e illudere le vittime che tutto sia finito, attaccherai a parlare con sette toni sopra il normale di calcio, sballo e fica in un turbinio di suoni onomatopeici e bestemmie. Se non ti va di farlo da solo come un matto che inveisce alla luna, portati dietro un amico che ti faccia da spalla. Nel momento in cui una luce nervosa tornerà a rischiarare il buio delle loro stanze, solo allora potrai considerare giunta al termine la tua missione notturna e proseguire con il successivo nome della lista".
Di fronte al suo sguardo perso e basito, incalzerò come un padre che, agonizzante, pretenda vendetta dal sangue del proprio sangue: "Sì, lo so. Dovrai raggiungere anche questo che nel frattempo s'è trasferito a Cuneo. Se vuoi, puoi lasciarlo per ultimo. Non valgano però a fermarti le loro preghiere supplichevoli così come non ti spaventino le minacce irose di chi ammazzerebbe pur di tornare a dormire in santa pace. A loro non scalfirono quindici anni addietro né le une né le altre. A quel punto non potranno far altro che spengere nuovamente la luce e darsi da fare, tra sbraiti esterni e gemiti domestici, affinché quell'alba ormai alle porte benedica il concepimento di coloro che un giorno li vendicheranno".
Probabile che all'udire queste parole spalancherà gli occhi colto come da un'illuminazione. Prima che possa aprire bocca, sarò io a confermare i suoi sospetti: "Esattamente come loro vennero concepiti a metà anni '90 per vendicarsi del sottoscritto tardo-adoloscente e degli altri soci casinari e menefreghisti. Io ho già pagato. Ora tocca a loro. È una ruota che gira. Così è sempre stato e così sempre sarà. Vai e trasforma il loro riposo domenicale in una veglia perpetua!".

lunedì 20 ottobre 2014

Zenzara

Mettiamo pure che la combinazione cromosomica ti abbia dotata di un DNA refrattario agli insetticidi, ai cambiamenti climatici e alle mie goffe smanacciate notturne per ridurti in poltiglia.
Accettiamo altresì che sia la tua incondizionata natura e non la tua stronza volontà a indurti puntuale ogni notte a svolazzarmi intorno le orecchie nel cuore delle tenebre. 
Poniamo finanche che il tuo non sia un normale ronzio di zanzara ma lo struggente canto del cigno di chi sa che di lì a poco dovrà cedere il passo al Generale Autunno.
Va bene allora, tutta la solidarietà del mondo e che il pensiero della morte non ti strugga l’esistenza.
Ma una cosa non capisco: venti giorni di rompicoglionesca agonia mi sembrano esagerati.
Per questo oggi, un attimo dopo essere tornato a casa e aver poggiato delicatamente a terra la borsa di lavoro, verrò a cercarti. Ti cercherò ovunque. Piccola sì ma non invisibile. E quando ti avrò trovata, non porrò fine alla tua lenta dipartita con un colpo di grazia fulmineo e generoso. No, troppo facile. Accosterò la mia bocca alle tue alette e ti sussurrerò in un crescendo rossiniano tutta la discografia dei Pooh (album solisti compresi).
Scommetto schizzerai fuori la finestra alla ricerca dell’ultimo zampirone al neon acceso dell’ultimo bar di provincia pur di non sentire il mio “Diooo delle cittàààààà”.
Maledetto Noè e il giorno in cui vi ha caricato a bordo.

sabato 4 ottobre 2014

10 sfumature di melma

Nominato da nessuno nonché reduce dall'ennesimo momento imbarazzante, elenco a seguire le 10 figure di melma che hanno segnato la mia vita:
- "Uèlla... Di nuovo incinta, eh?". "No".
- "Ùrco, guardate quella... Stagionata ma... Chissà che numeri che fa!". "È mia mamma".
- "Che coincidenza: giusto ieri ho intravisto il tuo vecchio al supermercato e mi sei venuto in mente". "È morto 5 estati fa".
- "Bello il tuo nuovo appartamento. A parte quel quadro lasciato dai precedenti inquilini". "L'ho dipinto io".
- "Oh ragazzi... La prossima volta che veniamo a cena da Massi, ricordiamoci di evitare scrupolosamente il dolce: la peggior torta di mele che abbia mai...". "L'ho fatta io".
- "Allora ci vediamo stasera. Buona giornata!". "Buona giornata a te. Ma non ti stai dimenticando qualcosa prima di uscire?". (bacetto al risveglio dato... fiorellini sul tavolo messi... abbraccio sull'uscio fatto... Che diavolo...? Oh cazzo, oh cazzo... "È stata una settimana piena. Sai, la fine della scuola: le ultime verifiche, i voti, gli scrutini... Ma ti prometto che stasera usciamo a cena per il nostro anniversario! Auguri amore!". "Direi che non è il caso di anticiparlo di tre mesi. Volevo solo ricordarti di portar giù il secchiello dell'umido".
- "Ciao Davide, come sei cresciuto!". "Eh già... È parecchio infatti che non vi vedete tu e la mamma". "Sì, ci siamo perse un po' di vista". "Capita. E quello è l'ultimo dei tuoi figli? Quello piccolo che portavi ogni tanto a casa nostra? Mi ricordo quando giocavamo insieme a...". "È il mio compagno".
- "Sìììì... Sììì... Così... Così... Sei fantastica Claudia... Monia, volevo dire Monia!".
- Dopo 3 ore di sfiancante shopping compulsivo, un mio disperato tentativo di scacco matto: "Questo! Questo è perfetto! Ti sta benissimo!". "È quello che indossavo quando siamo usciti...".
But the winner is:
- inferocito per la brusca interruzione della tanto agognata pennichella pomeridiana, schizzo ancora intorpidito sul balcone per annunciare alla comunità il mio disappunto: "E se abbassassimo un po' il volume magari?". File di sguardi all'insù come in una coreografia di Broadway con il "casinista" che riprende più sommessamente: "L'eterno riposo dona a lui, o Signore...".

giovedì 25 settembre 2014

Motels

I motel che costellano a bordo carreggiata le strade secondarie degli Stati Uniti sono grossomodo riconducibili a 3 categorie principali:


1) quelli con insegna al neon rosa fenicottero mezz’accesa e mezza spenta con (in ordine di apparizione): tizio inebetito con birra in mano-rutto libero alla “reception”, scarafaggio ammaestrato che vi conduce in stanza, camera vintage anni ’30 ancora impregnata dell’ultimo sigaro fumato da John Wayne e tosaerba finito chissà come sul fondale della piscina.
2) quelli a gestione familiare in cui però vedrete sempre e solo lei, la matriarca (di marito e figli nessuna traccia, tanto da venirvi il sospetto che li abbia fatti fuori), all’insegna di: colazioni abbondanti e monotematiche (cialde all’uovo e sciroppo d’acero, cialde all’uovo e sciroppo d’acero, cialde all’uovo e sciroppo d’acero), pressanti inviti a partecipare alla funzione domenicale per redimere i propri peccati (eppure c’era parso di non aver fatto rumore) e strazianti abbracci prima della partenza (della serie: “Non fatevi tentare dalle grandi metropoli”).
3) quelli appartenenti alle grandi catene internazionali fintamente contestualizzati: finto ingresso saloon tipo villaggio Rio Bravo di Gardaland, finta musica country in filodiffusione registrata da una qualche garage band di Pechino e facchino finto nativo con finte perle di saggezza (“Valigia su pavimento è pizzicotto a viso di Madre Terra”… e “‘sti cazzi!” vi verrebbe di dirgli).

sabato 20 settembre 2014

Check out

Quei pochi metri di check-out aeroportuale che separano lo straniero appena atterrato dal turista in giro spensierato vengono centellinati micromiglio per micromiglio dalle autorità preposte.
Nome ufficiale: Dipartimento Americano di Immigrazione e Naturalizzazione della Salute Pubblica.
Una Ellis Island meno dozzinale e più asettica in cui l’impatto con l’inflessibile legge a stelle&strisce è inizialmente edulcorato da video infarciti di facce multietniche che cantilenano una sfilza di welcome sorridenti e occhiolinostrizzanti.
Se solo l’ansia da esaminando non v’impedisse di scorgere tra l’abbraccio di una prolifica famiglia del Vermont e il saluto col cappello di un segaligno cowboy dell’Arizona il millesimale fotogramma in cui un infervorato George W. Bush Jr. urla “O con noi o contro di noi!”.
Ma voi siete troppo distratti dal set di benvenuto appositamente allestito per rendervi conto dei messaggi subliminali (altrimenti vi sareste già accorti del dito medio della hostess alla discesa dall’aereo).
Tanto che, passettino dopo passettino in attesa del turno di fronte al vidimatore in divisa, il nervosismo di inizio fila si stempera in un sentore di agiatezza cui non poco contribuiscono le ipnotiche musichette in filodiffusione (solo col senno di poi vi assillerà il sospetto di studi pluriennali della CIA per imbonire a ritmo di jingle per saponette anche gli ospiti più riottosi).
Ma ora tutto è sereno, l’armonia regna sovrana e il mondo è in pace con se stesso (anche grazie agli Stati Uniti, sì! E fanculo l’antiamericanismo che aveva inacidito la vostra giovinezza).
Avanti l’ultimo step, postura gioviale, sorriso tantrico e… pollice sinistro che viene artigliato e scaraventato su una fotocellula digitale a imperitura memoria degli schedari di Langley. Come soundtrack uno scontroso “Welcome” scatarrato da una baffuta poliziotta latinoamericana modellata da anni di nachos e burritos.

giovedì 11 settembre 2014

Foto segnaletiche

Sarà un principio di fabriziocoronismo fulminante che induce l’immediata associazione: apparecchio fotografico uguale gattabuia.
Sarà l’abitudine di vedere, a scadenza regolare manco fosse previsto dal contratto, l’immancabile star di Hollywood arrestata e sbattuta in prima pagina con tanto di foto segnaletiche en pendant.
Sarà il vago presentimento di maldestri tentativi di interloquire in un inglese-grammelot più da Zambla Alta che da Lower Manhattan da cui imbarazzanti equivoci da cui inevitabili guai da cui sbirri sbraitanti in delirio d’onnipotenza da cui sedili posteriori di una macchina della Polizia a luci spiegate.
Fatto sta che al momento di fare il passaporto per gli States m’è venuto spontaneo rivolgere all’obbiettivo prima un ebete sguardo frontale, quindi un ingobbito profilo destro, infine un goffamente raddrizzato profilo sinistro.
Tutto ciò senza che mi venisse data alcuna istruzione in tal senso.
Un riposizionarsi istintivo, incondizionato, da criminale colto sul fatto.

Naturalmente dalla pellicola in frame che ne è derivata è stata tenuta valida l’ultima foto, la quarta, quella in cui risultano tagliati orecchio e metà occhio sinistro causa convinzione di aver già espletato l’incombenza proprio mentre la pupilla superstite si irradia e mostra tutto lo stupore per il flash inatteso.
Inevitabile che un fotogramma del genere facesse drizzare le antenne ai responsabili del check-out dell’aeroporto JFK di New York. E una normale procedura di controllo si trasformasse in un affaire internazionale tra l’indiziato italiano con la sua valigia terronica, il poliziotto yankee affiancato dal collega navajo, il metal detector cinese premessa del taser teutonico.
E sullo sfondo, già al sicuro su suolo americano, l’addetto alle pulizie di colore che se la ghigna bellamente pensando a quando era toccato a loro secoli addietro.

giovedì 6 febbraio 2014

L'occasione


Quello che più lo sorprese non fu tanto il ritrovarsi su un materasso adagiato per terra a fianco di tre persone che lì per lì stentò a riconoscere.

Neppure rendersi conto, stropicciati più volte gli occhi ancora intorpiditi dal sonno, che quelle persone, così apparentemente disinibite nella postura del dormiveglia, non le conosceva affatto.

Di sicuro si sarebbe ricordato di due ragazze così avvenenti (almeno da quel poco che riusciva a intravedere tra le lenzuola di raso arancione) e di quel giovanotto di colore che cominciava a stiracchiare le membra nerborute a pochi centimetri dal suo cuscino.

Forse ad attutire la sua meraviglia fu il rendersi conto che anche gli altri, riguadagnata poco dopo di lui la lucidità successiva al più profondo dei sonni, si fissavano vicendevolmente con  la medesima  espressione di chi si sta chiedendo “Ma dove diavolo sono capitato… e soprattutto chi è questa gente?”.  

Cosa li avesse spinti allora a infilarsi nello stesso letto coperti di solo intimo non era dato sapere e non era dato sapere il motivo di quella misteriosa complicità fatta di gambe e braccia avvinghiate, restie a sbrogliarsi anche dopo l’affiorare di un fulmineo imbarazzo.

A sorprenderlo fu piuttosto quel bagliore improvviso che ne aveva provocato il brusco risveglio: una lama di luce penetrata da chissà dove e chissà come a rischiarare un luogo che aveva conservato fino ad allora il sopore ovattato dei posti bui.

Quasi uno strappo di tenda ad esibire al resto del mondo un microcosmo fino a quel momento gelosamente avvolto nell’abbraccio protettivo dell’oscurità più totale.

Un effetto abbacinante talmente forte da costringere i suoi occhi a una lenta rimodulazione del campo visivo e alla progressiva presa d’atto di ciò gli stava attorno.
Mano a mano che i contorni perdevano l’indeterminatezza del riverbero e guadagnavano la concretezza delle cose, l’assurdità della situazione gli apparve in tutta la sua evidenza: una vetrina di negozio con la gente che sfilava attorno e un numero crescente di curiosi che si soffermava davanti a indicare quei quattro individui col cartellino del prezzo al collo.

sabato 18 gennaio 2014

Adunata




Sarà stato il senso di colpa, sarà stato un improvviso rigurgito di senso paterno, sarà stata la fulminea consapevolezza di dover recuperare il rapporto con quel figlio tredicenne che da un po’ di tempo aveva cominciato ad apparirgli sempre più distante, lontano anni luce dalla complicità che li aveva resi inseparabili fino a qualche mese prima. Quella stessa complicità che tanto dolore, per quanto celato agli occhi altrui, aveva causato alla moglie nonché madre, invidiosa giorno dopo giorno di un legame padre-figlio intriso di goliardia cameratesca nutrita all’inizio di giochi virili e imbevuta poi di discorsi politici.  
Le giustificazioni per una simile deriva sentimentale? Nessuna mancanza genitoriale, semplicemente le solite scuse che un padre si dà per autoassolversi: il lavoro e gli straordinari obbligatori, l’ingresso negli -anta e la stanchezza cronica, la delusione ideologica (sua) e la passione contestataria (del figlio), l’indole sovversiva e anaffettiva tipica di ogni adolescente (in fondo c’era passato anche lui anni prima).
Fatto sta che quel giorno aveva deciso che un tentativo di riavvicinamento andava compiuto e per questo aveva dato il permesso al figlio di andare al raduno di estrema destra cui da tempo il ragazzo voleva partecipare ma che fino ad allora aveva conosciuto solo la strenua opposizione della madre, timorosa che il figlio ricascasse nei medesimi errori giovanili del marito (di fare visita in carcere ogni domenica mattina a un altro maschio di casa non aveva proprio voglia).
Unica condizione imposta dalla madre: quella che il ragazzo non ci andasse da solo.
Padre e figlio arrivarono nella spianata del raduno mentre già in lontananza si scorgeva un assembramento di persone intenta ad animare con gesti ripetuti quello che altrimenti sarebbe parso un contesto innaturale e spento per un raduno politico.
Il declivio grigio e ghiaioso del lago di Bolsena poco infatti si sposava con la pubblicistica clandestina di un evento da cui “sarebbe sortita la riscossa dell’italica patria”. Forse proprio la segretezza dell’incontro, più volte impedito dalle autorità della Capitale, aveva spinto gli organizzatori a scegliere tale amorfa ambientazione, resa ancor più lugubre dalle sagome rachitiche degli alberi autunnali e dal ritmo ipnotico della risacca.
C’era però quella fervida animosità di teste rasate a ravvivare l’atmosfera e a rendere il tutto quantomeno curioso anche per il più disinteressato dei passanti; figuriamoci per un padre e un figlio che ritrovarono nell’occasione l'aggancio ideologico per riallacciare le confidenze interrotte tempo addietro.
La sorda pesantezza che aveva permeato il viaggio in macchina si scioglieva ora in un’entusiastica gara a sfidare la memoria dell’altro con una serie di «E tu ti ricordi quando facevamo arrabbiare la mamma nascondendole il busto del Duce sotto le coperte?» e giù risate e pacche sulle spalle.
Ad ogni passo, vieppiù affrettato per raggiungere i camerati, l’imbarazzo precedente si dissolveva e un rinnovato affiatamento saldava una relazione che si era forse solo assopita sotto la cenere dei non detti per poi rinfocolarsi alla prima folata di vento, o almeno questa era l’impressione del padre.
Ad ogni passo appariva però sempre più chiaro che quella che alla distanza sembrava una selva di braccia meccanicamente tese, corrispondeva in realtà a uno scoordinato sbraccio collettivo di persone che lanciavano l’una addosso all’altra sassi e pietre raccolte con gesto rabbioso dal terreno ai loro piedi. Quasi si trattasse di un regolamento di conti atteso da anni che, una volta esploso, era impossibile fermare.
Fu allora che il padre raggiunse il figlio dopo che questi aveva all’improvviso accelerato l’andatura per guadagnare il centro dell’insolita adunata.
Lo strattonò con fare deciso, come solo un padre nell’atto di salvare il proprio figlio sa fare, e si voltò per mostrare al ragazzo la palese assurdità della scena circostante.
Ma fu solo quando si rigirò per dirgli «Andiamocene» che vide il figlio tendere il braccio e prendere la mira contro di lui.  

venerdì 3 gennaio 2014

Labirintite sentimentale



L’unica sensazione simile l’aveva avvertita quella volta che, solleticato dalle circostanze (invitante posto libero a fianco di colei che sarebbe diventata poi sua moglie), si era seduto sul tram in direzione opposta rispetto a quella di marcia: improvviso senso di nausea, vertiginoso calo di pressione e disperato bisogno di sdraiarsi prima che il vomito prendesse il sopravvento.
Da sempre, sin da bambino, era conscio di questa sua debolezza fisica; da quella volta che, giratosi per giocare coi soldatini sul copri-baule mentre papà e mamma guidavano spensieratamente, aveva avvertito un’inaspettata esplosione gastrica e, prima che riuscisse a pronunciare una qualsiasi “mam…” di stupore, aveva assistito coi suoi stessi occhi all’esondazione spontanea dalla bocca di un fiotto di cioccolata misto plasmon a ricoprire il sedile, il lunotto posteriore e i poveri soldatini.   
Anche ora che si era appena trasferito nel nuovo appartamento presentiva quella stessa fastidiosa sensazione che per tutta la vita aveva cercato accuratamente di evitare.
Eppure non si trovava in movimento; al contrario, era coi piedi ben piantato a terra.
Eppure non si era mai sentito d’animo così leggero da quando aveva abbandonato il vecchio alloggio di famiglia in cui ancora risuonava l’eco delle porte sbattute e del freddo addio di lei poco prima dello scoccare del nuovo anno.
Eppure in quell’esatto momento stava assaporando una delle sensazioni più rilassanti che organismo umano possa conoscere: la defecatio post-prandiale che solo gli autentici intenditori dell’abbinata caffè e sigaretta possono capire.
Per la prima volta da quando aveva cambiato abitazione e portato a termine il trasloco (poca roba, a dire il vero: un logoro tappetino da bagno tutto fronzoli che aveva comperato con lei ai mercatini natalizi di Bolzano giusto qualche giorno prima della rottura), si stava permettendo una fugace visita nel Nirvana dello sgombro intestinale in attesa di ripiombare di lì a poco nelle secolari leggi  del metabolismo quotidiano.
Qualcosa però non andava: all’improvviso lo stesso senso di nausea, il medesimo calo di pressione e l’identico bisogno di sdraiarsi di quella volta sul tram.
Un attimo prima che il conato avesse la meglio l’illuminazione: il water della casa nuova era collocato esattamente dalla parte opposta rispetto al water che aveva accolto le sue natiche nella precedente fase della sua esistenza.
Di quella dimora aveva curato insieme all’architetto ogni minimo dettaglio, ma aveva trascurato l’innocuo particolare di quale punto cardinale assegnare alla tazza sanitaria.
Tempo di aver chiare le idee e si voltò inginocchiandosi come un provetto saltimbanco per restituire al mondo la colazione di qualche ora addietro, e poi la cena delle sera prima e l’aperitivo delle sette con gli amici e il caffè preso alla macchinetta dell’ufficio nel primo pomeriggio e così via in un interminabile flashback duodenale fino alla squallida cotoletta fredda addentata di malavoglia la sera di Capodanno.
Nello stesso momento in cui rigurgitava l’inverosimile avvertiva però progressivamente, rigetto dopo rigetto, una rinnovata quiete intestinale frutto della riguadagnata giusta direzione.
Tempo di espellere l’ultimo rimasuglio di bistecca impanata e la rilassatezza di stomaco si era immediatamente trasferita qualche centimetro di intestino sotto, talmente pervasiva da comportare la spontanea evacuazione dello sfintere a brache ancora abbassate. 
Niente da fare: ormai il tappetino era da buttare.