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giovedì 25 settembre 2014

Motels

I motel che costellano a bordo carreggiata le strade secondarie degli Stati Uniti sono grossomodo riconducibili a 3 categorie principali:


1) quelli con insegna al neon rosa fenicottero mezz’accesa e mezza spenta con (in ordine di apparizione): tizio inebetito con birra in mano-rutto libero alla “reception”, scarafaggio ammaestrato che vi conduce in stanza, camera vintage anni ’30 ancora impregnata dell’ultimo sigaro fumato da John Wayne e tosaerba finito chissà come sul fondale della piscina.
2) quelli a gestione familiare in cui però vedrete sempre e solo lei, la matriarca (di marito e figli nessuna traccia, tanto da venirvi il sospetto che li abbia fatti fuori), all’insegna di: colazioni abbondanti e monotematiche (cialde all’uovo e sciroppo d’acero, cialde all’uovo e sciroppo d’acero, cialde all’uovo e sciroppo d’acero), pressanti inviti a partecipare alla funzione domenicale per redimere i propri peccati (eppure c’era parso di non aver fatto rumore) e strazianti abbracci prima della partenza (della serie: “Non fatevi tentare dalle grandi metropoli”).
3) quelli appartenenti alle grandi catene internazionali fintamente contestualizzati: finto ingresso saloon tipo villaggio Rio Bravo di Gardaland, finta musica country in filodiffusione registrata da una qualche garage band di Pechino e facchino finto nativo con finte perle di saggezza (“Valigia su pavimento è pizzicotto a viso di Madre Terra”… e “‘sti cazzi!” vi verrebbe di dirgli).

sabato 20 settembre 2014

Check out

Quei pochi metri di check-out aeroportuale che separano lo straniero appena atterrato dal turista in giro spensierato vengono centellinati micromiglio per micromiglio dalle autorità preposte.
Nome ufficiale: Dipartimento Americano di Immigrazione e Naturalizzazione della Salute Pubblica.
Una Ellis Island meno dozzinale e più asettica in cui l’impatto con l’inflessibile legge a stelle&strisce è inizialmente edulcorato da video infarciti di facce multietniche che cantilenano una sfilza di welcome sorridenti e occhiolinostrizzanti.
Se solo l’ansia da esaminando non v’impedisse di scorgere tra l’abbraccio di una prolifica famiglia del Vermont e il saluto col cappello di un segaligno cowboy dell’Arizona il millesimale fotogramma in cui un infervorato George W. Bush Jr. urla “O con noi o contro di noi!”.
Ma voi siete troppo distratti dal set di benvenuto appositamente allestito per rendervi conto dei messaggi subliminali (altrimenti vi sareste già accorti del dito medio della hostess alla discesa dall’aereo).
Tanto che, passettino dopo passettino in attesa del turno di fronte al vidimatore in divisa, il nervosismo di inizio fila si stempera in un sentore di agiatezza cui non poco contribuiscono le ipnotiche musichette in filodiffusione (solo col senno di poi vi assillerà il sospetto di studi pluriennali della CIA per imbonire a ritmo di jingle per saponette anche gli ospiti più riottosi).
Ma ora tutto è sereno, l’armonia regna sovrana e il mondo è in pace con se stesso (anche grazie agli Stati Uniti, sì! E fanculo l’antiamericanismo che aveva inacidito la vostra giovinezza).
Avanti l’ultimo step, postura gioviale, sorriso tantrico e… pollice sinistro che viene artigliato e scaraventato su una fotocellula digitale a imperitura memoria degli schedari di Langley. Come soundtrack uno scontroso “Welcome” scatarrato da una baffuta poliziotta latinoamericana modellata da anni di nachos e burritos.

giovedì 11 settembre 2014

Foto segnaletiche

Sarà un principio di fabriziocoronismo fulminante che induce l’immediata associazione: apparecchio fotografico uguale gattabuia.
Sarà l’abitudine di vedere, a scadenza regolare manco fosse previsto dal contratto, l’immancabile star di Hollywood arrestata e sbattuta in prima pagina con tanto di foto segnaletiche en pendant.
Sarà il vago presentimento di maldestri tentativi di interloquire in un inglese-grammelot più da Zambla Alta che da Lower Manhattan da cui imbarazzanti equivoci da cui inevitabili guai da cui sbirri sbraitanti in delirio d’onnipotenza da cui sedili posteriori di una macchina della Polizia a luci spiegate.
Fatto sta che al momento di fare il passaporto per gli States m’è venuto spontaneo rivolgere all’obbiettivo prima un ebete sguardo frontale, quindi un ingobbito profilo destro, infine un goffamente raddrizzato profilo sinistro.
Tutto ciò senza che mi venisse data alcuna istruzione in tal senso.
Un riposizionarsi istintivo, incondizionato, da criminale colto sul fatto.

Naturalmente dalla pellicola in frame che ne è derivata è stata tenuta valida l’ultima foto, la quarta, quella in cui risultano tagliati orecchio e metà occhio sinistro causa convinzione di aver già espletato l’incombenza proprio mentre la pupilla superstite si irradia e mostra tutto lo stupore per il flash inatteso.
Inevitabile che un fotogramma del genere facesse drizzare le antenne ai responsabili del check-out dell’aeroporto JFK di New York. E una normale procedura di controllo si trasformasse in un affaire internazionale tra l’indiziato italiano con la sua valigia terronica, il poliziotto yankee affiancato dal collega navajo, il metal detector cinese premessa del taser teutonico.
E sullo sfondo, già al sicuro su suolo americano, l’addetto alle pulizie di colore che se la ghigna bellamente pensando a quando era toccato a loro secoli addietro.