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giovedì 15 ottobre 2020

Sotto un accento sbagliato

 



Stamattina Fede chiede: “Quando anche io posso diventare papà?”.
Contropiede. Impaccio più totale.
Memore delle paroline di Irene (“Sempre la verità, a nostro figlio sempre la verità...”), stavo già cominciando a rispondere “Allorché in età adolescenziale il tuo apparato riproduttore...” quando mi è venuto in mente che ultimamente Fede accentua alla grande tutte le parole di fine frase.
Del tipo: “Stasera cosa si mangià?”, “Sono stanco... Andiamo a casà!” e via dicendo.
(Assurdo, detto per inciso, che scordi invece l’accento in espressioni come “Quanta pusillanimita!” o “Dai che ci mettiamo in cerchio a suonare il digeridu”).
Allora ho risposto levandomi dall’imbarazzo: “Quando in occasione di un conclave i cardinali appositamente confluiti individueranno nella tua figura la più adatta a vestire i panni del vicario di Cristo”.
“Ah, ok”
“Figurati, chiedi sempre al papa quando vuoi la verità”.

Un po' pattume, un po'...

 


Che poi a forza di averci a che fare uno si affeziona anche alle cose più assurde.
Tipo il secchiello dell'umido.
Che quando rincasi il giorno del ritiro e non trovi più il tuo in mezzo agli altri degli altri ci rimani male.
Perché dentro ci sono i tuoi rimasugli incrostabili, i tuoi cagnotti fossilizzati, il tuo lezzo che fa tanto casa.
Qualcun altro l’ha preso. In buona fede ma l’ha preso.
Allora prendi uno a caso di quelli rimasti.
Ma non è lo stesso.
Altri avanzi, altre croste, altri unti (ammazza come impregna il wasabi!).
Un effetto a catena di solitudini biodegradabili.
Fino alla volta dopo, quando ognuno ritrova il proprio secchiello in mezzo agli altri degli altri.
E lo riporta a casa.
Ma niente è come prima.
Perché alligna il sospetto: che sia stata la tua secchia a concedersi, a tradire, a cercare gli scarti altrui.
Perché magari aveva voglia di wasabi.
Un po' pattume, un po' puttana.

domenica 11 ottobre 2020

Colti in castagna


Oggi siamo andati per castagne a Olera.
Non c’ero mai stato.
A Olera intendo, non a castagne.
Sopra Alzano.
Bel borghetto, tenuto bene.
Le stradine che sono già sentieri, le casette con le pietre a vista, gli infissi di legno appena piallato, i battiporta in ferro battuto che al rumore pare di viaggiare nei secoli.
E poi gli anziani seduti qua e là per le viette, sulle böre che furono tronchi, a salutare i passanti e raccontare storie.
Soprattutto ai bambini a un varco da quel bosco che da sempre stimola la loro fantasia.
Pronti ad accovacciarsi e pendere dalle labbra altrui, segnate da vicende e stagioni.
Bambini tipo Fede.
Che alla fine della storia, mi ha guardato e detto ad alta voce: “Papi, non ho capito niente”.
“Nemmeno io” avrei voluto dirgli ammiccando alla bocca sdentata del vecchierel canuto e bianco, ma mi son limitato ad accarezzargli la testa e dire “Oggi no, ma vedrai che un giorno queste parole ti torneranno in mente e all’improvviso capirai”.
L’anziano ha fatto cenno di sì col capo e ha sorriso. Si fa per dire.