Uno degli aspetti che avevo sottovalutato dell’avere un figlio in tarda età è la fatica di stargli dietro quando vuole giocare a farsi acchiappare.
Io gli butto lì le macchinine o le costruzioni ma lui si alza e vuole giocare a essere rincorso e preso.
Scatti improvvisi, fiatone e crampi lancinanti mi spingono a imprecazioni trattenute a stento e sostituite dal sorriso ebete-forzato di chi si sta divertendo.
Pur di vederlo sorridere fingo di sorridere.
Questo fino al diciottesimo inseguimento.
Al diciottesimo inseguimento il sorriso ebete-forzato cede il passo alla cattiveria sfinita del difensore che da ultimo uomo insegue l’attaccante avversario lanciato in contropiede verso la porta.
E allora è sgambetto.
Leggero, impercettibile. Quanto basta.
Alzo anche le braccia a dire “Non l’ho nemmeno toccato” nel caso qualcuno avesse visto.
Ma non c’è nessun arbitro a sanzionare l’espulsione (la mamma è fuori; in sua presenza non si gioca ad acchiappo: “Potrebbe farsi male” dice lei - “Solita apprensiva esagerata” dico io).
E al rientro le diremo che la creatura manca ancora di coordinazione.
Che stava camminando (“Te lo giuro: macché correre, stava camminando!”) ed è inciampato.
Meno male che c’era papà a mettergli il cerottino.
I cerottini.
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A vent'anni scendevo in strada per cambiare il mondo. A quaranta mi abbasso a raccogliere il pongo.
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